Chi sa tutto sull’esports alzi la mano

Un settore in grandissimo fermento e in assoluta affermazione. Ma ancora lontano da essere considerato di massa.
Enrico Gelfi, co-founder dell’Osservatorio Italiano Esports, ci spiega perché presto lo sarà.

Enrico Gelfi (sx) e Luigi Caputo (dx), co-founder dell’Osservatorio Italiano Esports
QLASH, Reply Totem, Mkers e Macko: nomi che suonano familiari? 

Se la risposta è sì, allora siete tra i 6 milioni di fan dell’esports* in Italia.
Un seguito in costante crescita, soprattutto durante il periodo della pandemia in cui è stato registrato un aumento del 20% degli appassionati (fonte: Nielsen). 
Un grande successo che ha spinto – ad esempio – anche alcune importanti squadre di calcio tradizionale a investire e dar vita al campionato virtuale eSerie A.

Abbiamo invitato Enrico Gelfi, co-founder dell’Osservatorio Italiano Esports (OIES) a fare due chiacchiere sul tema.

Enrico, come è nata l’idea di fondare questo Osservatorio?

Nel 2020 Luigi Caputo e io abbiamo avvertito l’esigenza di colmare un vuoto di mercato. C’erano già le condizioni perché l’esports potesse diventare un mercato interessante, sia dal punto di vista quantitativo, che qualitativo, ma c’era (e c’è ancora) un gap conoscitivo tra la domanda e l’offerta. Infatti, chi eroga l’offerta non ha tutte le competenze di marketing e comunicazione che richiede il mercato; viceversa, gli investitori non hanno la conoscenza di linguaggi, strumenti e strategie necessari per essere efficaci in questo settore.

Oggi non parliamo più di mero hobby per singoli gamer, ma anche di un format di intrattenimento che si sta affermando sempre più.
È un trend che arriva in Italia con molti anni di ritardo rispetto, ad esempio, alla Corea, dove già 10-15 anni fa i grandi tornei venivano diffusi per il grande pubblico a mezzo televisivo. A che punto è il nostro Paese come numeri sia dei “praticanti”, sia degli spettatori?

La “pratica” è importante, ma il consumo inteso come il numero degli spettatori lo è molto di più. Si può fare un paragone con gli sport tradizionali, penso al calcio: i tesserati alla Federcalcio e i praticanti di calcio in Italia sono la maggioranza rispetto agli altri sport, eppure sono pochi rispetto a chi invece segue il calcio dalla televisione o negli eventi live. Il tutto si può traslare in ciò che sta succedendo nell’esports.
È anche vero che in Italia non ci sono ancora le condizioni per cui l’esports abbia le stesse dimensioni che ha in altri posti nel mondo. Senza scomodare la Corea, oggettivamente culla dell’esports e dove già negli anni Settanta si tenevano le prime competizioni, ci basta pensare alla Spagna, alla Francia o alla Germania, cioè paesi molto più vicini a noi, ma dove le competizioni videoludiche hanno una presa sul pubblico molto maggiore.

Quanto contribuisce allo sviluppo e quanto spazio ha la tecnologia nell’esports?

Sicuramente la tecnologia ha un suo ruolo, però devo essere onesto: l’esports rimane un’emanazione dell’agonismo più naturale che esista, quindi non ha necessariamente bisogno di situazioni altamente tecnologiche. La sfida è uno contro uno o una squadra contro un’altra, a seconda del videogioco, e questo avviene anche con mezzi performanti ma non ipertecnologici.
È altrettanto vero però che la realtà aumentata, che non ha ancora avuto uno sviluppo particolarmente decisivo, potrà rendere questa esperienza ancora più d’appeal per i praticanti e gli appassionati. Quindi è un tema in evoluzione insieme al movimento dell’esports.

La pandemia ha funzionato da acceleratore per il mondo dell’esports?

La pandemia ha avuto un ruolo decisivo perché ha accelerato, come fanno gli enzimi, un processo che era in evoluzione, ma non ancora così veloce.
Molte persone si sono avvicinate al mondo esports perché è stato una valvola di sfogo per il senso di solitudine portata dall’isolamento.
Parlando di esports però va tenuto in considerazione anche il blocco degli eventi fisici: a dispetto di quello che si pensa, il mondo esports vive molto di eventi dal vivo, uno dei principali motori di sviluppo di tutto il settore. Quindi, la visibilità avuta da un lato ha visto una difficoltà di conversione dall’altro.

Gaming e community: un luogo comune è che si tratti di un’attività asociale e sedentaria. In realtà non è più “chiudersi in una stanza al buio a giocare da soli”, bensì connettersi con la propria comunità di riferimento. Quanto viene percepita questa nuova realtà?

Questa cosa è verissima. Infatti, per paradosso, eravamo più isolati noi: la generazione dei Baby Boomer, la Gen X a cui appartengo anch’io. Quando giocavamo ai videogame eravamo veramente chiusi in cameretta. Io ahimé avevo il Sega Master System che era collegato alla tv e quindi mi toccava stare o in cucina o sala da pranzo, ed era anche peggio perché dopo un’ora arrivava la mamma e il gioco finiva!
Scherzi a parte, oggi si riescono a creare delle relazioni virtuali molto più forti, stabili e continuative sfruttando i canali digitali.
Si tratta di riuscire a inserire questo processo in modo armonico nelle attività quotidiane di una persona, ragazzi e non solo. Il digitale può e deve essere uno dei modi per sviluppare delle relazioni, in accordo con il mondo fisico, che non va scordato, anzi.
È proprio il motivo per cui l’esports sta facendo uno sforzo significativo per avvicinarsi al mondo sportivo e quindi dotarsi di professionalità tecniche come mental coach, trainer che si occupano dell’allenamento fisico e così via. Il pro player diventa sempre di più un atleta a tutto tondo, che allena le capacità intellettive necessarie per competere, ma anche quelle psicologiche e quelle fisiche, perché peraltro alcune attività richiedono anche una certa resistenza fisica e mentale.

Questo si inserisce nella annosa questione “videogame e società”. Il videogioco è visto da una larga fetta di persone come un mero passatempo, anche controproducente e a volte diseducativo (è ciclico il dibattito sulla violenza nei videogiochi). Questa evoluzione può aiutare a rivalutarlo e dargli la giusta dignità agli occhi dell’opinione pubblica?

La responsabilità sociale è una tematica inevitabile. Come sempre quando un nuovo contenuto o un nuovo trend comincia a passare dall’effetto curiosità alla fase di conoscenza e facilità di accesso, automaticamente avviene un accreditamento nel mondo mainstream, e questo sta succedendo anche per l’esports. C’è in corso un processo che porterà ad accettare il valore del gaming e a individuare i contrappesi per renderlo non eccessivamente invasivo.
Esistono una serie di valori che si possono associare al mondo dei videogiochi, così come ci sono una serie di minacce, ma francamente cosa nella nostra società è totalmente privo di rischi? Probabilmente nulla.  

Le generazioni Y e Z non hanno più nella TV il medium di riferimento, bensì piattaforme di streaming come Twitch, nate per i gamer e diventate ormai dei veri e propri luoghi di intrattenimento a 360°, dove trovare format anche del tutto sconnessi dal gaming. Homyatol, un twitcher molto famoso, ospita nel suo format settimanale personaggi pop (uno per tutti: Fedez) per parlare del più e del meno; Christian Vieri ha recentemente lanciato la sua televisione su Twitch, “Bobo TV”, dove parla di calcio.
Considerando questo contesto, i grandi brand come si posizionano in questo mondo? Le aziende sono pronte a parlare a questa nuova generazione nei suddetti canali e rispettandone il format? Chi si è già attivato cosa sta facendo?

La domanda è molto bella perché va al cuore della mission dell’Osservatorio Italiano Esports.
Le aziende hanno voglia e necessità di parlare a questi target, quindi si stanno interrogando su come raggiungerli. Per questo c’è interesse da parte del mondo mainstream verso il movimento esports. Gli esempi che citi sono calzanti, per fortuna ce ne sono sempre più.
A livello internazionale c’è l’imbarazzo della scelta, pensiamo a Louis Vuitton, Gucci, i brand dell’abbigliamento sportivo come Nike e Adidas, ma anche Coca-Cola e Amazon. In Italia, pensiamo a Armani nel settore fashion, McDonald’s e Burger King nel food, Mercedes e Ford nell’automotive.  Il trend a cui lo sport tradizionale ci ha abituati, ovvero l’invasione delle marche cosiddette non endemiche, cioè non connaturate al reparto tecnologico, sta diventando la normalità.
Non tutte le aziende, però, sono pronte per sfruttare al massimo il potenziale dell’esports. Molto spesso si affidano a degli influencer, a dei twitcher, che hanno già una fanbase importante per poter trasferire i propri contenuti.
Le squadre di calcio, per esempio Juventus, Milan e Paris Saint-Germain, già possiedono dei loro canali Twitch, dove però non propongono dei contenuti esports pur avendo delle compagini esports al proprio interno; al contrario offrono contenuti sportivi in senso tradizionale, un po’ come fa la Liga, il campionato di calcio spagnolo, che trasmette addirittura partite di campionato in esclusiva su Twitch (il primo è stato il “derby basco” il 7 aprile scorso).
Gli esperimenti sono molto interessanti, c’è un vero fermento.

I protagonisti dell’esports invece come si posizionano? I pro player hanno visibilità anche a livello mediatico e social media?

La distinzione tra influencer, intesi come content creator in grado di intercettare grandi pubblici, e pro player, intesi come giocatori che pensano esclusivamente alla performance, è tema caldo. È rarissimo trovare dei grandi campioni con anche una grandissima dote comunicativa e quindi grandi fanbase. Le due cose, in questo momento, vanno in parallelo: molti dei team si impegnano ad avere nella loro scuderia sia pro player, che garantiscano le vittorie nei tornei, che streamer, che attirino grandi masse di audience (i migliori arrivano ad avere fino a 100.000 views live dei propri stream). I primi portano visibilità e prestigio, i secondi portano attenzione da parte dei brand: la commistione crea l’alchimia vincente.

Come immagini in futuro dell’OIES? Quali progetti per il prossimo anno e i prossimi 5?

Il primo progetto per il prossimo anno in realtà è abbastanza semplice: riuscire a rendere fisico tutto ciò che abbiamo fatto lo scorso anno in modalità virtuale: eventi, webinar e attività di networking.
In secondo luogo, la costruzione di progetti più articolati: finora il grosso del lavoro è stato per allargare il più possibile la base, ma oggi che abbiamo 80 iscritti e continuiamo a crescere senza uno sforzo specifico, ci piacerebbe invece far sì che questi iscritti – così come potenziali nuovi partner – possano fare squadra per generare davvero ricchezza e valore.
Tra 5 anni, invece, è oggettivamente impossibile ipotizzare una previsione perché l’esports è un mercato a altissima innovazione e molto liquido. Sicuramente ora la nostra vision è quella di diventare gli acceleratori di un percorso che dal basso favorisca l’esplosione definitiva del mercato esports.

Marina Rampin
Marina Rampin
Claudio Lo Tufo, Camilla Morabito, Gaetano Grasso, Marco Oliveri, Marina Rampin, Mauro De Clemente
Marina Rampin
Gaetano Grasso, Marina Rampin