Comunicazione e Salute, come si rinnova una rivista

Partire dal lettore per calibrare gli interventi di restyling. Alberto Brunella, art director, racconta il case study di Oftalmologia Sociale

“Cresciuto tra colla, piombo e inchiostri”. Alberto Brunella, da sempre nel mondo della stampa per tradizione familiare, si definisce un geek con la passione, lungamente coltivata, per la grafica, l’innovazione e l’editoria. Segue con attenzione l’evoluzione del settore come negli ultimi tre decenni. Oggi è art director di Beryllium e nel futuro vede un inevitabile ‘ritorno’ alla qualità. Anche nella comunicazione sanitaria, “fondamentale è un’accurata analisi del target”, sottolinea.

Da dove nasce la tua passione per la grafica?

Sono un figlio d’arte, cresciuto tra colla, piombo e inchiostri. Papà litografo e mia madre allestitrice specializzata nello stabilimento tipografico della Treccani a Casal Bertone. Nel ’94, archiviati gli studi, sono approdato nell’azienda di famiglia, una società di pre-stampa tra le più rinomate del Centro-Sud. Eravamo agli albori della fotocomposizione moderna e il nostro studio si occupava dell’impaginazione di oltre cento magazine, tra mensili e quindicinali. 

Nel giro di pochi anni ho prima aperto una mia tipografia, poi sono diventato editore della rivista ufficiale di Roma Capitale, SPQR Sport: 160 pagine a servizio dello sport a Roma. Nel frattempo lavoravo nell’adv e nella produzione di allestimenti collaborando con le più grandi agenzie del mondo (Saatchi & Saatchi, Armando Testa) e con straordinari art director come Susanna Gulinucci del Gambero Rosso. 

Sono sempre stato un po’ geek: ho avuto a disposizione i primi Mac usciti qui a Roma che mi hanno permesso di utilizzare, prima di altri, software come Xpress, Illustrator, Photoshop. Fino a quel momento, invece, tutti noi avevamo utilizzato sistemi chiusi per la sola fotocomposizione e impaginazione. Era l’alba di una nuova stagione.

 

Come si è evoluto il settore in questi tre decenni?

È cambiato completamente, in tutto. Anche nel metodo. Prima il supporto cartaceo, un libro, una brochure, un manifesto, era imprescindibile. E c’era tanta attenzione al colore, alla precisione e a un certo tipo di “gabbia”. Era impensabile uscire dalla quadricromia della stampa tipografica. Il pantone lo usavano soltanto i top brand, come Gucci o Prada. La stampa in oro, in rilievo o la stampa a secco erano relegate in una nicchia. 

Ora l’utilizzo della ricercatezza nella carta si è perso. È diventato tutto massivo, non c’è attenzione al colore o alla definizione della foto perché la qualità è data dal monitor. La stessa immagine ha un diverso effetto a seconda dei device con i quali viene visualizzata. Vent’anni fa era impossibile pubblicare una foto in bassa risoluzione perché le immagini si acquisivano con scanner molto potenti.

La qualità oggi è appiattita a vantaggio della velocità e viene ricercata solo per prodotti luxury, di fascia alta, come ad esempio quelli che parlano di yacht. Senza dimenticare che si è perso un ulteriore elemento dell’esperienza di lettura: l’odore della carta, diverso da libro a libro. Anche quello era un modo per attivare i sensi.

 

Un sempre minore utilizzo del supporto cartaceo, qualità in discesa salvo alcune nicchie. Stiamo andando verso la scomparsa dei prodotti tipografici?

Affatto, penso che semplicemente il settore si stia evolvendo, stia innovando, ma si arriverà presto al giro di boa e a quel punto la ricerca della qualità non potrà che aumentare e i prodotti tipografici diventeranno dei gadget, dei bijoux. Inoltre, anche nel digitale la tendenza a ricercare la qualità crescerà. Pensiamo all’architettura: attualmente sto lavorando per uno studio di architetti italiani su una cittadella in Arabia. La ricerca di qualità è in questo caso è stressatissima. L’attenzione al dettaglio è totale.

Di recente, hai curato anche il restyling della rivista Oftalmologia sociale. Da dove si parte per rinnovare in comunicazione sanitaria?

È stato un cambiamento quasi naturale. Abbiamo utilizzato una logica che si confà al target della rivista, cioè siamo partiti dall’analisi della tavola optometrica tenendo presenti due macrotemi: facile lettura e piacevolezza. Il risultato è stato raggiunto attraverso delle gabbie che rendono più ariose le pagine, impostate in modo da abituare l’occhio del lettore a una certa ripetitività degli elementi. 

Titolo e sommario, ad esempio, sono collocati sempre nella stessa posizione. A livello cromatico giochiamo sull’alternanza di due colori, bianco e nero, aggiungendo un accento di cromia nel titolo e nelle rubriche, che altro non sono che dei contenitori separati dal resto del giornale e differenziati da esso grazie a un fondino colorato. Molta attenzione la dedichiamo alla parte fotografica, trasformatasi in qualcosa di emozionale: accompagna la lettura dell’articolo ed è una suggestione di ciò che vi si troverà all’interno. 

Poi abbiamo studiato font e interlinea, tutto teso alla facile lettura. Del resto, la rivista parla di vista. Per cui la scelta è ricaduta su un font semplice e pulito, senza grazie: l’Helvetica. Dimensione mediamente superiore agli altri prodotti cartacei e uso di alcuni grassetti all’interno di un testo monocromatico. 

Infine, abbiamo lavorato sulla testata, che è stata cambiata radicalmente con il passaggio a “OS”, una sorta di vero e proprio logo, e abbiamo ripensato la copertina. Spazio, dunque, a foto full page e d’effetto, che seguono la logica dell’editoriale o della cover story, con l’aggiunta di strilli di copertina che rimandano ai contenuti del numero.

 

Qual è la regola aurea da seguire per evitare che il restyling di un prodotto, così legato all’abitudine e ai temi sensibili come la salute, disorienti il lettore?

Tendenzialmente un restyling di giornali ha una cadenza biennale-triennale che segue la naturale evoluzione del lettore. Oggi i cinquantenni usano Instagram, due anni fa erano una rarità. Quindi l’esigenza di aggiornare c’è sempre. Fondamentale è, quindi, fare un’analisi accurata sul target. Uno stravolgimento, per quanto possa sembrare tale, non lo è mai fino in fondo.