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Le battaglie online delle donne. Quanto è efficace la nuova frontiera del femminismo 2.0?
Ieri sera ero in auto e ascoltavo un noto programma radiofonico mentre tornavo a casa:
“Sandali con tacco e lacci, minigonne e jeans microscopici, questa la moda dettata da Dua Lipa e Elodie. Diciamolo, queste ragazzine ci mettono un po’ in difficoltà”.
Non nascondo il mio essere sbigottita nell’ascoltare queste parole in diretta nazionale, dette da un uomo che molto probabilmente ha l’età dei padri delle ragazzine che ha citato: il presentare un singolo di successo focalizzandosi sul vestiario della cantante e su come quest’ultima influenza, in modo scabroso, la moda delle nuove generazioni, l’ho trovata una grande caduta di stile.
Ma ciò che più mi ha colpito è la leggerezza nell’esporre quel messaggio.
Eppure, l’era digitale mette a disposizione di tutti i nuovi flussi di pensiero che dominano il parere pubblico, e se sai navigare in rete è facile capire cosa è lecito esporre e cosa non lo è più.
È innegabile che da sempre le donne si siano fatte sentire (e vedere) per attirare l’attenzione sulle tematiche che le identificano come una categoria diversa da quella maschile. E per diversa, intendo “un passo indietro”.
Instagram è ormai diventato un anfiteatro di opinioni pubblicate da pagine che si autodefiniscono “femministe”.
Ma che cos’è il femminismo?
Il movimento che ha come scopo l’equiparazione della donna all’uomo sia nel campo civile che in quello sociopolitico si chiama, appunto, femminismo e nasce in Francia durante la rivoluzione francese, quando Olympe de Douges presentò al governo una “Declaration des droit des femmes” e circa un anno dopo, Mary Wollstonecraft pubblicò un libro in Inghilterra, dando inizio al movimento femminista inglese, intitolato “Vindications of the rights of a Woman”.
Da qui, con fatica, nei secoli che sono seguiti, si sono raggiunti traguardi, che forse noi in primis diamo per scontati.
Naturalmente, ciò a cui noi stiamo assistendo in tempi moderni è un femminismo diverso sia per i mezzi di comunicazione a disposizione, che facilitano la divulgazione del pensiero, sia perché, fortunatamente, il livello d’istruzione femminile è differente.
Tutte sono coscienti dei propri diritti e tutte hanno le carte in regola per combattere la società a colpi di libri, podcast e manifestazioni. Insomma, zitte non ci stiamo più!
Femminismo 2.0, così lo chiamano i giornali.
Lotta alla società patriarcale, lotta alla cultura dello stupro, lotta al catcalling (si, è un nome british e molto cool per indicare gli strilli e le urla che le donne sono costrette a subire per strada ogni volta che passeggiano), ridefinizione dell’identità di genere.
Sono “le femministe degli anni venti”, descrizione che mi piace moltissimo e che mi fa immaginare donne in corsetto e cappellino con in mano uno smartphone.
Ma se nel passato le lotte delle donne hanno portato a dei risultati tangibili, le battaglie a colpi di dirette instagram e reels divulgativi, oggi, cosa stanno cambiando?
Analizzando le correnti dei social come una semplice spettatrice, posso dire con certezza che coesistono in rete diverse tipologie di comunicazione femminista: c’è la corrente passivo-aggressivo delle pagine che proclamano la totale supremazia del genere femminile, ci sono le pagine di girl empowerment, e ci sono le influencer, sulle quali riverso dei sentimenti contrastanti in quanto non riesco mai a comprendere quanto le loro parole siano dettate “dalla moda” del momento di travestirsi da suffragetta.
Essendo una grande utilizzatrice di social, negli anni mi è capitato molto spesso di assistere virtualmente a dibattiti a colpi di commenti e di like sull’utilizzo del corpo femminile per la propaganda femminista.
Si, avete capito bene, sto parlando delle Femen, il movimento di protesta femminile ucraino che vede le sue addette girare per il mondo mezze nude ed urlanti contro la società patriarcale.
Quello che del femminismo 2.0 non ho mai capito, però, è il limite tra il puro esibizionismo e la vera voglia di cambiare la società.
Sempre sui social, si assiste quotidianamente e polemiche, a mio avviso, sterili: è veramente necessario parlare per 10 minuti dell’importanza di essere chiamata “avvocata” quando in realtà c’è una differenza di salio tra le donne e gli uomini che lavorano in tribunale?
La pubblica proclamazione dell’importanza della libertà di espressione è una delle cose più belle che l’era moderna ha regalato: possiamo dire ciò che vogliamo e come vogliamo, sempre (certo, nel limite di un pensiero democratico).
Molto spesso però ho notato come gli schemi comunicativi di alcune pagine femministe presenti sui social siano controproducenti: l’identificare come giusto e “femminista” solo determinati atteggiamenti non conformi alla società, può far sentire escluse altre donne che magari in quel contesto stanno bene.
Qui si crea un’ulteriore spaccatura: donne che vanno contro altre donne. Abbiamo bisogno anche di questo? Non credo proprio.
I social hanno il loro pro e contro in questo contesto.
Permettono la libera divulgazione di idee, creano dei network di protesta che generano consapevolezza, ma danno anche libero spazio ad una comunicazione molto spessa gestita male che, se utilizzata con accezione negativa, diventa controproducente per la causa stessa: non puoi combattere il patriarcato se tu in primis ti ritieni superiore al genere maschile o ad altre donne dal pensiero diverso.
Ciò che bisogna risolvere è il gap tra generi: la differenza di salario, le diverse possibilità di fare carriera, la libertà di vestirsi come si preferisce senza essere additati con epiteti poco piacevoli, combattere quelle idee intrinseche nelle vecchie generazioni che ci vedono come generatrici di bambini e madonne della casa.
Ma le sponde di due lidi possono essere avvicinate solo se si attraversa il mare remando insieme: uomini, donne e chiunque non si identifichi in entrambi i generi, devono collaborare al fine di rendere il femminismo un motto non più necessario.
La parola d’ordine deve diventare: uguaglianza.
Ah ragazze, dimenticavo, vestitevi come più vi piace, l’importante è che quel sandalo con i lacci vi faccia sentire bene.
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