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Quanto può incidere un colore sulla rappresentazione sociale di un’identità?
È gennaio e siamo nel 2022.
Delle mascherine protettive FFP2 “di un colore non decoroso per la divisa” sono state consegnate nelle caserme della Polizia della provincia di Pavia, Varese, Ferrara, Siracusa, Bologna e Venezia.
Il colore in questione è un delicato rosa pastello, decisamente non in coordinato con la palette scura e vigorosa della divisa regolamentata a livello nazionale.
Così tanto delicato e grazioso da riuscire a smuovere gli animi del sindacato Sap e spingerlo a scrivere una lettera al Capo della Polizia, richiedendo un intervento immediato.
Nella lettera si legge che << risulta difficile immaginare difficoltà nell’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale>>.
Un commento che risulta essere inopportuno, in quanto, in molte realtà di difficoltà ce ne sono state eccome.
Basti pensare alla scuola di secondo grado che si trova, a quasi due anni dall’inizio della pandemia, ad essere soggiogata da una mancanza di presidi di protezione offerti dallo Stato. (1)
Ma forse questo non è importate: le maestre, del resto, non indossano una divisa simbolo di forza e virilità.
Ciò che si lamenta è un oltraggio all’identità che viene comunicata attraverso una divisa, un’identità che è legata indissolubilmente all’interazione sociale e alle sue modalità.
Prendendo ad esempio l’interazionismo simbolico di Mead in “Mente, sé e società” , egli elabora la teoria del sé, vedendolo come il prodotto di un “io” che risponde alle aspettative sociali degli altri, per poi interiorizzarle e formare il “me”.
L’identità, quindi, risulta essere determinata dal contesto sociale e i suoi attributi si spostano dal collettivo all’individuale.
Nella vita comune, tutti noi percepiamo gli altri attraverso degli schemi di lettura, delle tipizzazioni, che ci portano a catalogare le persone e indicarle sotto determinate tipologie: da qui lo stereotipo.
Cosa significa ragionare e vivere la società attraverso gli stereotipi?
Significa attribuire delle caratteristiche di una determinata categoria a tutta l’unità che la compone.
Peter L. Berger, Thomas Luckmann in “La realtà come costruzione sociale” descrivono lo stereotipo così:
“se io classifico il mio amico Henry come un membro della categoria X (per esempio come un inglese) ipso facto interpreto almeno certi aspetti della sua condotta come risultati da questa tipizzazione: per esempio, i suoi gusti in fatto di cibi sono tipicamente inglesi, come i suoi modi, certe sue reazioni emotive, eccetera. Questo implica però che queste caratteristiche e azioni de mio amico Henry siano pertinenti a chiunque rientri nella categoria di inglese”
In questo caso il rosa, colore delicato e femminile, viene visto come una categorizzazione del sesso debole.
La valutazione, quindi, diventa: “Se indossi il colore rosa sei una “femminuccia” indifesa.”
Lo stereotipo ha una forte valenza culturale e identificativa, e se portato all’estremo può sfociare in idee alquanto distorte.
Può, quindi, un colore inibire l’autorevolezza di una divisa? O sono forse le azioni che si compiono con quell’uniforme a comunicare il proprio status?
Ad esempio, compiere atti di violenza non necessari sfruttando la forza riconosciuta a quella stessa divisa, non è comunque un oltraggio ad un simbolo che dovrebbe rappresentare giustizia, uguaglianza e sicurezza?
La violenza è violenza anche se si indossa una mascherina in pendant con la giacca.
Eppure, si giustifica l’abuso di potere, o meglio, molto spesso si fa finta di non vederlo.
Perché ci sono richieste di intervento sul colore di una mascherina protettiva, e non sulla ricerca di giustizia, di legalità, del volersi dissociare da un sistema molto spesso malato da parte degli appartenenti alla categoria?
Non sono forse le nostre azioni a comunicare chi siamo?
Un gesto vale più di mille parole e colori (a meno che tu non sia un cartello pubblicitario).
(1) articolo inerente a scuola e mascherine