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Gli spazi deputati all’arte mantengono sempre quest’identità? Tre esempi ci mostrano che si tratta piuttosto di un processo dinamico, in cui interagiscono intenzioni di architetti, istituzioni, fruitori, azioni sociali e simboliche.
Abituati a percepire i luoghi attraverso le loro funzioni convenzionali, a volte il loro cambio d’identità suscita interrogativi inaspettati e ci spiazza per condurci là dove sono i nostri gesti e le nostre intenzioni a fare gli spazi.
Da Olafur Eliasson ad Anne Imhof, passando per Petrit Halilaj. Nomi importanti dell’arte contemporanea che non transitano per una qualsiasi illustre galleria d’arte, ma le cui opere trovano posto nella mostra Studio Berlin, allestita da Christian e Karen Boros nel mitico Berghain: leggendario cuore della techno berlinese e mondiale, chiuso per Covid dal 20 aprile e svuotato dalle migliaia di persone che lo affollavano a ogni ora del giorno e della notte.
Fino a dicembre, Studio Berlin riunirà ottanta artisti contemporanei attivi nella fotografia, nella pittura, nelle performance, nella scultura e nelle installazioni multimediali nel luogo simbolo della cultura underground della città. Qualche curiosità? Non si potranno fare fotografie e il biglietto andrà a sostegno del Berghain, colpito duramente dal lock down come molti altri locali berlinesi. Paradossalmente l’arte contemporanea, spesso considerata vettore di concetti troppo alti, astratti e fumosi, reinventa l’identità e la destinazione d’uso di uno spazio, del suo modo di viverlo.
L’arte cambia l’ambiente urbano circostante. A partire dalle intenzioni di chi modifica quello spazio e di chi lo agisce e lo abita, possiamo dire che l’arte cambia il mondo. E non è un’affermazione che possiamo leggere solo nella sua attualità, nel presente, ma anche nella progettualità, nel suo dirigersi verso il futuro e farsi direttrice del cambiamento.
Un futuro in cui lo stadio Meazza, meglio conosciuto come San Siro, diventa un memoriale verde dedicato alle vittime del Covid-19, sebbene esistano progetti per costruire un nuovo stadio di 60mila posti o vi sia un parere della sovrintendenza ai beni culturali secondo il quale «lo stadio Giuseppe Meazza non presenta alcun interesse culturale e come tale è escluso dalle disposizioni di tutela e conservazione».
L’affermazione sull’assenza di un interesse culturale non ha trovato d’accordo l’architetto fiorentino Angelo Renna, che ha fatto suo il proposito di trasformare San Siro in un «Monumento per la vita» grazie al progetto di una grande foresta artificiale di 35 mila cipressi mediterranei che sia innanzitutto un memoriale in ricordo delle vittime italiane del Coronavirus.
Uno stadio, lo spazio per eccellenza dedicata al gioco e quindi ad una dimensione puramente ludica e dinamica dell’esistenza, si conquista una dimensione spirituale e ultraterrena. Il progetto di Renna implica la demolizione del tetto per consentire alla luce naturale di filtrare e alle precipitazioni di colpire direttamente il suolo. Prevede inoltre la realizzazione di uno spazio concavo che consenta di raccogliere l’acqua piovana, riutilizzata per irrigare e pulire. Renna ha anche immaginato un museo, un atelier e un centro di ricerca.
Ora sta al Comune di Milano vedere nel progetto dell’architetto fiorentino una chance per reinventare un luogo, secondo una dimensione destinata alla socialità e all’incontro.
Insomma è l’intenzione di architetti e istituzioni a cambiare identità e funzioni ai luoghi, a investirli di significati e valori simbolici nuovi?
Questo è in gran parte vero, a patto di tener presente che si tratta di un processo che può partire con la medesima efficacia anche dal basso. E questo sposta l’attenzione su un luogo che già a suo tempo ha vissuto il suo “cambio d’identità”: da Gare a Musée d’Orsay. Lo scorso settembre, a causa della sua vistosa scollatura, una donna è potuta entrare nel museo solo coprendosi con una giacca per via dell’eccesso di zelo di un addetto alla biglietteria. Questo nel museo in cui sono esposte, ad esempio, l’Olympia di Manet o l’Origine del mondo di Courbet.
La sezione francese del collettivo femminista FEMEN non ha fatto tardare la sua risposta: una manifestazione di protesta nel museo. Circa 20 attiviste sono entrate regolarmente e poi, una volta arrivate nella galleria delle sculture, hanno tolto le magliette, mostrando i seni nudi e gridando ad alta voce lo slogan che portavano scritto sul torace: «Obscene because of you», l’oscenità è nei tuoi occhi: una protesta contro la sessualizzazione del corpo della donna. Le immagini dell’azione al Musée d’Orsay, chiamata My Breasts Are Not Obscene sono state pubblicate sull’account Twitter di FEMEN e hanno fatto rapidamente il giro dei web e dei media.
Ma se si è trattato di un’iniziativa di un addetto alla biglietteria, che colpa ne ha il museo?
Il fatto è che attaccare il museo invadendo a seno nudo la galleria delle sculture significa attaccare un sistema di pensiero, significa sfruttare la forza moltiplicatrice che quel palcoscenico può dare alla propria protesta. Significa rivendicare, anche solo per opposizione, la propria identità e scagliarla contro l’istituzione rappresentata dal luogo: cosicché l’istanza di liberazione e emancipazione del corpo e dell’identità della donna e la dimensione istituzionale del museo divengono i poli opposti e in eterno conflitto dell’apollineo e del dionisiaco. Se è vero che lo spazio musealizzato viene teoricamente violato, è anche vero che quest’ultimo si fa protesta del corpo. Un atto di protesta che costruisce una nuova identità, anti-istituzionale e tutta al femminile.
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