Foto pubblicata su Facebook dall'account ufficiale Gucci

Cosa ci ha insegnato il Guccifest

Un festival digitale che interseca le arti: la moda, il teatro, il cinema, la narrazione. Piccola riflessione a posteriori sull’ultima e geniale trovata di Alessandro Michele, che ci racconta un sogno

In Italia c’è una strana abitudine: quella di parlare delle cose prima che succedano, o quando sono ancora all’inizio. È una modalità molto diffusa soprattutto nel mondo della cultura e del costume. “Inizia la nuova serie televisiva”, “presto verrà lanciata la nuova campagna pubblicitaria”, “tra qualche giorno vedrete al cinema”. Tutto giustissimo: bisogna creare aspettativa, anticipare gli eventi, suscitare curiosità. Meno diffusa è invece la riflessione a posteriori. C’è, ma poca. Noi, che come slogan abbiamo “Be visionary” allora abbiamo deciso di fare un percorso al contrario. Abbiamo scelto di farlo in occasione del Gucci Fest, una iniziativa geniale e ricca di contenuti di cui vale la pena parlare anche ad opera conclusa.

Partiamo dalle basi: di cosa stiamo parlando. Il Gucci Fest è stata l’ultima creazione di Alessandro Michele, direttore creativo della maison dal gennaio 2015. In un periodo che impone la distanza, la calma, l’isolamento, ha deciso di riempire i canali social con sette episodi che insieme compongono un film intero “Ouverture of Something that Never Ended”. Un modo per presentare la nuova collezione, ma non solo.

TRAILER GUCCI FEST

Sette episodi, ognuno perfetto sotto diversi punti di vista. Perfetto nella costruzione delle immagini, nella ripresa, nell’uso dei colori e della luce. Perfetto come pubblicità, perché dirige magistralmente l’occhio dello spettatore in maniera inconscia, facendolo soffermare sui dettagli delle scarpe, dei colletti, delle stampe, dei materiali che reagiscono al contesto.

Perfetto come attività digitale, coinvolgendo celebrità popolarissime tra i giovani, intercettando anche i meno fashion victim che prontamente hanno condiviso link ed estratti con i loro beniamini, creando interazione, traffico, interesse. Perfetto perché solidale, perché nella miniserie viene dato risalto anche a 15 giovani stilisti indipendenti: Ahluwalia, Shanel Campbell, Stefan Cooke, Cormio, Charles De Vilmorin, JordanLuca, Mowalola, Yueqi Qi, Rave Review, Gui Rosa, Rui, Bianca Saunders, Collina Strada, Boramy Viguier e Gareth Wrighton

Ma è perfetto anche come contenuto, perché “Ouverture of Something that Never Ended” racconta molto più di una collezione, racconta una storia. Episodio dopo episodio, guidati dalla regia di Gus Van Sant seguiamo Silvia Calderoni, tra le attrici italiane che oggi suscitano più curiosità ed interesse, in una routine quotidiana, scadenzata da impegni comuni: una pigra mattina nel proprio appartamento, la spedizione di una cartolina all’Ufficio Postale (ecco, mai incontrato qualcuno così disponibile e servizievole alle Poste, ma facciamo finta di nulla), una serata a teatro, una conversazione casuale per la strada.

Mentre spiamo la sua normalità, ci affianchiamo a temi come la sessualità, l’amore, la comunicazione, la bellezza, l’evasione, la sostenibilità della moda, la commistione delle arti, persino il futuro e la tecnologia.

Silvia prende appunti, scrive pensieri che a volte sembrano disconnessi, ascolta, osserva, fa yoga. In un verbo solo: vive.
Ma non vediamo solo la vita di Silvia, vediamo la vita degli abiti che indossa. Come si muovono, come cadono, come vengono spostati e come interagiscono tra di loro.
Lo aveva dichiarato apertamente Alessandro Michele stesso: «Che vita hanno i vestiti quando smettono di sfilare? Quali storie sono capaci di disegnare nello spazio dell’esistenza? Cosa accade loro quando si spengono i riflettori della passerella? Sono le domande che vengono a farmi visita in questo presente incerto ma gravido di premonizioni».

Una storia calata nel presente che non dimentica il passato, in una atmosfera vintage e retrò dove lo spettatore può seguire come una caccia al tesoro l’apparizione di modelli delle stagioni passate.

E i cameo non si limitano agli abiti del passato ma coinvolgono anche le celebrities affezionate. Personaggi come Paul B. Preciado, Harry Styles, Billie Eilish, Ariana Grande, Florence Welch, Lu Han e molti altri appaiono in maniera naturale e perfettamente coerente, ognuna portando il proprio contributo nella costruzione del mondo di Gucci. Non sono testimonial, sono parte del fascino della maison, incuriosiscono il pubblico che sa che, fuori dallo schermo, c’è un rapporto tra loro e Alessandro Michele. Relazioni che abbiamo intravisto sui social, negli scatti di servizi fotografici o di paparazzi, in video pubblicitari che raccontano “dietro le quinte” e che trovano nella partecipazione al GucciFest la loro consacrazione definitiva. E insieme a loro ci sono artisti di nicchia, colleghi, modelli. Insomma, è una versione cinematografica di quella che potremmo immaginare come la foto di classe di una Gucci Academy, così vicina e inarrivabile – come del resto è la moda nella sua essenza più alta.

Cosa ci lascia allora il GucciFest, oltre ad una evasione in un mondo somigliante e surreale, dove non ci sono mascherine né paure del contatto? Ci lascia tutto e niente. Ci lascia un grande esempio comunicativo, una pubblicità potente, una versione esteticamente perfetta di storytelling. Ci lascia la malinconia di un mondo che è esistito, di uno che non esisterà e di uno che non vivremo ancora a lungo.

Una stele di Rosetta per comprendere questo Festival, ce lo ha dato proprio Alessandro Michele, con il suo manifesto Appunti del Silenzio.

“In questo silenzio, che è una cosa vivente, il mio ascolto abbraccia tutte le persone straordinarie con cui sono connesso. La ricalibrazione del tempo, per stabilire il ritmo a livello umano, vuole essere una promessa di cura rianimata verso questa straordinaria comunità di scopi a cui appartengo con orgoglio. È il mio progetto, pro-jectum: l’arte di estendere l’esistenza in futuro. Un futuro plurale, in cui “noi” fornisce una base. Un futuro che contiene l’abbraccio che oggi non possiamo darci l’un l’altro, ma al quale torneremo con una comprensione ampliata”.

Ed ecco allora che la moda diventa tramite per la narrazione, sua concretezza e stimolo. La realtà diventa onirica, suggerita, con discordanze e surrealismi che ne interrompono il lento incedere. Per poi concludersi come una meta rappresentazione.

Cosa è stato il GucciFest? Something that never ended, Qualcosa che non è mai finito.

Credits foto: Facebook @GUCCI