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L’anniversario è arrivato: un anno di pandemia, di lockdown, di aperture e chiusure, di speranze e di nuove ondate. In questo tira e molla, siamo diversi da un anno fa?
Il tema è parecchio scivoloso. Diritto all’informazione, oggettività della scienza, tifoseria politica, la più grande pandemia dal secondo dopoguerra: gli ingredienti per “farsi male” ci sono tutti.
Forse proprio per questo è il caso di provare a parlarne, ad analizzare cosa non ha funzionato.
Senza avere la pretesa di trovare delle risposte, ma con l’obiettivo di farsi qualche domanda.
Il toto-virus era necessario?
Dalla scienza, e dai suoi esponenti, mi sono sempre aspettato una certa oggettività. Non l’unanimità, ma in un certo senso una direzione comune. I vaccini (in generale), ad esempio, sono un grande tema del nostro tempo. Da un lato i no-vax, dall’altro la comunità scientifica. Con qualche voce fuori dal coro, per carità. Ma con una visione comune, condivisa.
Si può essere con gli uni o con gli altri.
Nel febbraio 2020, invece, ho avvertito un certo smarrimento. Non tanto per iniziative singolari come “Milano non si ferma” e affini, con annesse scuse di Sindaci e amministratori qualche giorno dopo averle lanciate. Ma perché non ho ritrovato quella oggettività, o quantomeno la cautela tipica della scienza, in un momento di grande incertezza che avrebbe beneficiato di moderazione più che di risposte divergenti. Bastava cambiare canale per passare dal “banale raffreddore” al “peggior virus dell’ultimo secolo”. Non per bocca di imbonitori o showmen. Ma di illustri virologi, da eccellenze del nostro sistema sanitario, probabilmente uno dei migliori del mondo.
Avevo dato per scontato le tifoserie politiche, mi ha spiazzato un coro contraddittorio e scoordinato di un mondo che – di fatto – dovrebbe essere terzo e oggettivo sui fatti.
Come avrebbero dovuto comunicare gli scienziati?
Non ho una risposta, so solo quello che mi sarei aspettato.
Più cautela e sobrietà, meno opinione e più oggettività. In uno scenario incredibile come mai accaduto nella storia recente dell’umanità ogni singola parola di un virologo era come un macigno, in grado di generare paure, speranze, disperazione, dolore in milioni e milioni di persone.
Soprattutto all’inizio della pandemia avrei preferito meno tesi assolute (“è poco più di un raffreddore” o “moriremo tutti”) e meno tifo. Quindi non discuto l’invasione delle televisioni (e del sistema mediatico in generale) da parte degli esperti; discuto l’approccio comunicativo – con qualche rara eccezione – da arena politica, in cui sfidarsi a singolar tenzone sul virus, sulla sua pericolosità, sulle possibili terapie, sulle possibili contromisure da adottare. Virologi contro virologi, virologi contro politici, virologi contro soubrette e opinionisti da televendita. A fare da pubblico milioni di italiani spaesati e spaventati, incapaci di raccapezzarsi in uno scenario più incerto di quello di una guerra mondiale.
Uno vale uno, anche nel sapere scientifico?
In piena pandemia, soprattutto nella prima fase, si è creato un abnorme disallineamento tra domanda e offerta di virologi in tv. Lo schema è quello classico dell’informazione, non solo televisiva: se ho un tema da trattare, cerco l’opinione di chi è esperto di quel tema.
Ma avendo un solo tema da trattare, praticamente ventiquattro ore al giorno in centinaia e centinaia di testate, emittenti, trasmissioni ecc. è chiaro che, ad un certo punto, sono venuti a mancare i virologi da invitare, intervistare, coinvolgere.
È, così, iniziata una vera e propria caccia ai virologi, mediaticamente parlando: una volta saturata la disponibilità della prima linea, i luminari che tutto il mondo ci invidia, è iniziata la ricerca di seconde linee da mandare in tv. Poi è toccato alle terze, poi alle quarte e così via.
Ogni canale, ogni intervista, ogni salotto, ogni sitarello attivo oggi in Italia ha avuto il suo virologo da intervistare. Che fosse uno studioso autore di pubblicazioni scientifiche o un neolaureato, ad un certo punto, faceva poca differenza.
Perché si è innescato un meccanismo quasi perverso, in cui non era il valore dell’esperto intervistato a legittimare il valore dell’informazione che veniva diffusa, ma l’esatto contrario, è stato il sistema mediatico a trasformare semplici medici in opinion leader: se lo hanno intervistato su una testata nazionale allora sarà uno esperto. Vagli a spiegare, al povero telespettatore, che magari era l’unico disponibile a quell’ora, in quel giorno.
C’era un modo per “coordinare” questo caos comunicativo?
Nessuno può impedirmi di esprimere la mia opinione, tranne me stesso. Eppure se sapessi che le mie parole potrebbero avere un effetto dannoso sulle persone, sull’economia di un paese, sulle aspettative di una comunità di punto in bianco prigioniera in casa propria, ci penserei cento volte prima di esprimere un’opinione. Nel dubbio starei zitto.
Difficile autolimitarsi, di fronte ad una platea che ci guarda speranzosi, ad un giornalista che ci incalza chiedendoci risposte nette a favore di share quando in realtà di netto c’è ben poco. Ma se nessuno si autolimita, non sarebbe forse stato il caso di individuare una qualche forma di filtro o di controllo? Qui la questione si fa spinosissima.
A chi poteva spettare questa funzione? Al Governo? Al Ministero della salute? Alle aziende sanitarie? Era ipotizzabile immaginare un protocollo comunicativo rigido e ferreo per coordinare le notizie che venivano diffuse praticamente a reti unificate, h24, dagli esponenti della nostra comunità scientifica? Questo avviene solo nei regimi dittatoriali, verrebbe da obiettare. Vero. Esiste il diritto di parola inalienabile. Vero anche questo.
Ma forse la più grande e grave crisi dal dopoguerra a oggi avrebbe meritato un qualche sistema che “controllasse” cosa andavano dicendo in giro virologi di ogni sorta? Non per evitare pareri discordanti con quelli governativi, ma per evitare che immettessero nel bulimico sistema informativo notizie contrastanti, spiazzanti, in grado di generali contraccolpi non solo psicologici ma anche sociali ed economici. Per la serie: “se sono un imprenditore e voglio sposare la tesi del banale raffreddore, perché devo chiudere la mia azienda andando incontro a delle perdite economiche sicure? L’ha detto il virologo tal de tali in prima serata”.
Si può sollevare il dubbio che la cattiva informazione rappresenti una minaccia per la salute e, in quanto tale, vada affrontata senza considerare la profilassi una limitazione della libertà di parola?
E il sistema mediatico?
Il sistema mediatico è stato, semplicemente, se stesso. Parte attiva di un cortocircuito in cui l’infotainment ha toccato vette altissime, tanto da trasformarsi healthainment, ovvero l’informazione scientifica che intrattiene anche in contesti che di informativo hanno ben poco.
Nulla di male, se non ci trovassimo nel pieno della pandemia più grave dall’inizio del secondo ad oggi, dove il sistema nel suo complesso ha rappresentato l’unica fonte in cui milioni di italiani hanno cercato di trovare rassicurazione rispetto a qualcosa di cui si sapeva poco e niente.
Poteva essere gestita diversamente? Con più cautela e istituzionalità? E gli inserzionisti? Tutto questo sistema che chiedeva una novità al giorno, poteva avere la responsabilità di accettare che di risposte giuste ne poteva arrivare, al massimo, una alla settimana?
Un anno dopo, con la pandemia che ancora ci attanaglia, abbiamo imparato qualcosa?
Forse è l’unica domanda a cui mi sento di dare una risposta: no.
Credits foto di copertina: Photo by Adam Nieścioruk on Unsplash
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